Maha Kumbh Mela


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Diario di viaggio

8 febbraio.

Quando raggiungo il campo è ormai buio.
In realtà l’aereo atterra ad Allahabad alle 16 in perfetto orario, ma ci vogliono più di tre ore per percorrere quei pochi chilometri che conducono al Maha Kumbh Mela.
Il traffico in India riesce sempre a creare ingorghi terrificanti per poi dissolversi come un nodo marinaro e reintrecciarsi in modo indistricabile solo poche centinaia di metri dopo. Fiumi di gente indicano la direzione giusta, vanno tutti lì, al grande evento, sicuramente il più grande del mondo, il più atteso dopo un secolo e mezzo, luogo di richiamo e di pellegrinaggio per più di cento milioni di indiani.
Giro per ore, in rotatorie dal senso indefinito, effettuando il più grande slalom della mia vita tra moto, auto e camion carichi di umanità ammassata come su un carro bestiame. Percorro chilometri immerso in una nebbia da smog e assordato dal suono incessante di clacson impazziti e incitati dal “horn please” stampato dietro ogni veicolo.
La strada finalmente si apre su una grande valle; a perdita d’occhio, si estende la più grande tendopoli del mondo!
Mi ritorna in mente quando, per la prima volta, salii sull’empire state building e il mio sguardo si perse tra i grattacieli di Manhattan, o quando, mi recai in Birmania a Bagàn, ad ammirare la valle dalle quattromila pagode.
Come disse Terzani, “davanti a tanta meraviglia non ci si può non sentire fieri di appartenere alla Razza Umana”.

Ma qui, davanti a tanta folla accalcata e tanta misera umanità, quale sentimento provare?

Sicuramente un senso di grande stupore, di sorpresa ma anche un profondo senso di insicurezza per la propria incolumità.

È ormai il tramonto, il Gange luccica dai riflessi di miriadi di luci. Una striscia rossa, come una ferita, lo attraversa lungo la sua larghezza, ultimo baluardo di un sole che non vuole ancora morire.
Dall’alto del ponte, sono visibili, come in un formicaio, persone in un flusso continuo che confluiscono, defluiscono e si intersecano…..senza mai toccarsi.
L’auto non può più progredire, scendo e monto su un tuc tuc, riuscendo così a percorrere qualche altro centinaio di metri. Tutto bloccato, solo le persone, come un torrente in piena, continuano a procedere in tutte le direzioni.
Decido di continuare a piedi, prendo solo la mia fedele macchina fotografica, mentre affido ad uno stuolo di sherpa, per poche rupie, il resto del bagaglio.
È notte, tutto intorno “il caos più ordinato del mondo”.
Ognuno sa esattamente dove andare e perché.
Non un semaforo, nessuna indicazione, pochi riferimenti. Tutto intorno evoca immagini bibliche, la grande fuga dall’Egitto, catene umane con in testa ogni cosa possa risultare utile, coperte, legna, utensili, materassi…cibo.
Catene umane legate per la mano o attaccati all’abito di chi li precede, vecchi, bambini, handicappati, tutti per un unico scopo, raggiungere il loro guru e, al suo seguito, sperare nel grande bagno sacro del 10 febbraio.
Sperare che la loro misera vita possa finalmente finire, anche a costo della rinuncia alla reincarnazione in una situazione migliore, o forse sperare di redimere l’anima dai quei pochi peccati che una simile vita possa conoscere.
Dopo aver raggiunto il camp, stremato più per le emozioni della giornata che per la fatica, riesco a mangiare un po’ del solito riso dei giorni precedenti condito con minestra di ceci, non apro nemmeno il bagaglio e sentendomi davvero fortunato mi butto sul letto. Nel percorso fino alla tenda avevo visto migliaia di accampamenti sotto pallide stelle offuscate dalle luci di numerosi piccoli fuochi, dove, stretti come pinguini, l’uno accanto all’altro ammassati, uomini donne bambini e vecchi, i più fortunati solo con una coperta, condividevano con la fede il calore e il tepore dei propri corpi.
Trovo nel letto una tiepida borsa d’acqua calda, segnale che la notte sarebbe stata più fredda dell’immaginato, mi rannicchio sotto le coperte, nella speranza di riuscire a non sentire il freddo e le musiche e i suoni che dal campo si elevano, mischiandosi in un rumore assordante; finalmente, sognando il bagno di folla che mi avrebbe atteso domani, riesco ad addormentarmi.

9 febbraio.
È la vigilia del Mauni Amavasya Snam, il grande bagno dell’imperatore.
La folla del giorno prima non era niente in confronto a quella che continua ad arrivare, si parla di più di cinquanta milioni di fedeli.
La struttura della tendopoli ricorda vagamente l’accampamento romano. È stata edificata alla confluenza del Gange con lo Yamuni, e, si dice, nella mitologia indù, con un terzo fiume, il Saraswati, forse ormai sotterraneo. Divisa in settori a struttura quadrangolare, con strade che la percorrono da nord a sud e da destra ad ovest, dà vita a centinaia di incroci….tutti uguali.
Decido di servirmi di una guida che possa indirizzarmi nei luoghi principali e soprattutto la sera ricondurmi in tenda!
Mi viene presentato Jogesh, un giovane indiano, di casta alta, fiero delle sue origini e perfetto conoscitore del luogo e della complicatissima religione Indù dalle migliaia divinità ma tutte riconducibili a Brama, il Dio creatore.
Mi condurrà dai Sadhu e forse riuscirà a rimediarmi un ambìto permesso come fotoreporter.
Il kumbh Mela è come l’acqua in una grande pentola, ogni 12 anni viene acceso il fuoco e piano piano le sue molecole come impazzite, aumentano la loro velocità, descrivono traiettorie bizzarre senza mai scontrarsi, aumentano di energia fino all’ebollizione, per poi ritornare al proprio stato quiescente. Almeno una volta nella vita un induista lascia il suo villaggio, percorre migliaia di chilometri per raggiungere il kumbh mela, affronta pericoli e difficoltà per inseguire il suo più grande sogno, per ritornare poi lentamente alla vita di tutti i giorni.
Un grande sogno? Una promessa? Una droga? È la verità la loro?
Difficile dirlo, d’altronde non è poi la religione l’oppio dei popoli?
Cammino accanto a Jogesh ascoltando, a volte un po’ annoiato, i suoi interminabili racconti sugli Dei, le loro reincarnazioni, e sulla storia di Budda la nona reincarnazione di Visnù. Scatto in continuazione foto a bancarelle, donne velate, ai vecchi dalla lunga barba bianca e la pelle attraversata da profonde rughe come la storia che avrebbero saputo raccontare.
Una grande fiera dalle proporzioni bibliche, con tende adibite a veri luoghi di culto, fiumi di gente diretti verso il Gange, non importa se l’acqua sarà gelida o inquinata, quello che è certo è che il bagnarsi purificherà la loro anima!
I Naga sono un gruppo particolare di Sadhu, la loro caratteristica è quella di aver rinunciato a qualsiasi piacere pur di ottenere il massimo livello di spiritualità, nessun abito, la pelle cosparsa di cenere e soprattutto, ciò che è più incomprensibile ai noi occidentali, il bisogno di martoriarsi in qualsiasi modo i genitali dando esibizione, a volte un po’ da circo, della propria capacità di punire e offendere il proprio pene affinché tutta l’energia sessuale possa confluire in unica grande energia dello spirito.
Le ore scorrono velocemente, per le continue emozioni si riesce a non soffrire né il caldo né la fatica ma, verso le otto decido comunque di rientrare, come d’altronde avrei fatto a Firenze nella mia villa, con la differenza che qui non caleranno le luci, né la gente rientrerà nelle proprie case, né si fermerà per cenare davanti ad un succulento piatto di spaghetti, ma come un fiume in piena dopo un nubifragio, continuerà a scorrere, come acqua impetuosa, verso il fiume sacro.
L’indomani mi sarei dovuto alzare presto, non potevo assolutamente rischiare di perdere l’appuntamento con il grande bagno dei Baba di tutta l’Industan.

10 febbraio.
Al bagno in realtà non riesco ad arrivarci, sarebbe stato per me impossibile raggiungere davvero la riva sacra, non sono in fondo uno di loro, non con la stessa fede, ed è per questo che non posso pensare di far parte di quel terzo fiume sotterraneo, lo Saraswati che ogni 12 anni riemerge vestendosi di umanità per ricongiungersi al Gange e allo Yumani.
Riesco però a veder scorrere tutti i carri con i Sadhu più illustri, ognuno di essi seguito da una folla esaltante, e ad assistere all’uscita dei Naga urlanti dietro i loro condottieri a cavallo, come i tori dal loro recinto, durante la fiera di San Fermino a Pamplona,.
Mi sono spesso chiesto quale possa essere il confine tra la religione, la fede e la più grande speculazione sulle speranze della povera gente, ma qui ci si rende conto che non è poi così importante capire, l’importante è esserci ed impregnarsi del fascino del più grande evento del mondo.
La giornata purtroppo finisce con un tragico evento, si sparge di bocca in bocca e di lingua in lingua, dal sanscrito all’indi, dall’inglese all’italiano, la notizia della morte di almeno 36 pellegrini, al rientro dal grande sogno, per il cedimento di una passerella della stazione ferroviaria. Un piccolo numero in confronto ai cinquanta milioni di persone presenti, ma pur sempre 36 anime che avevano creduto nel grande bluff, che il Maha Kumbh Mela possa, in qualche modo, regalare davvero l’immortalità.

 

2 Replies to “Maha Kumbh Mela”

  1. Reportage bellissimo, emozionante: ogni volta rimango stupita della tua bravura e sensibilità. Complimenti!

  2. veramente eccezionale. Mi piacerebbe vederne degli altri .
    complimenti,veramente bravo.

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