Siberia


Nenets

Un popolo in cammino

  • All’improvviso, dal bianco notturno della Taiga, piccoli punti sempre più distinguibili svelarono le sagome di quattro Chum, come quelli degli indiani d’America del nostro immaginario collettivo. Il villaggio era davanti a noi, ci erano voluti due giorni e più di 10.000 Km, per essere catapultati davvero in un nuovo mondo! Dove tutto è legato alla abilità dell’uomo, dove il superfluo non può esistere ed il necessario deve essere ogni giorno conquistato e ricercato con la fatica e l’abilità che solo in certe situazioni l’uomo riesce a trovare.

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    “Come solo un padre riconosce il proprio figlio”, così solo un Nenet sa riconoscere la propria renna. Un rapido gesto, un lancio, venti metri di corda librati nell’aria, un incastro perfetto tra le ramificate corna delle femmine o sui forti colli dei maschi. E’ difficile sbagliare, quasi impossibile, ogni tiro un centro, ogni volta la renna giusta! Quella tra 10.000! Rapidamente immobilizzate sul manto nevoso rimangono immobili fino alla fine della battaglia, fino al tramonto, quando ormai esauste, allontanate le altre, saranno slegate e ricostituite in uno nuovo branco.

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    Se dovessi pensare ad un balletto penserei al “Walzer dei fiori” di Tchaikovsky, se dovessi pensare ad un quadro penserei alla “Lezione di danza” di Edgar Degas. Dall’alto del cielo, con il drone, in veste di spettatore, ma intrufolato dietro le quinte, ad assistere con attenzione ai loro gesti più spontanei, naturali, abituali, Instancabili, ognuno con un compito preciso, con un coordinamento capillare e attenti a che nulla andasse perso. In meno di 10 minuti della tenda rimase solo un’impronta circolare sulla neve. Le slitte, ordinatamente disposte davanti alla tenda, furono caricate di ogni bene e unite alle renne, scelte in base alla loro capacità di traino e ornate di fregi e stemmi da festa.

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    Una lunga fila di uomini, cani, renne, slitte, donne… silenziosa e bianca come la scia di un aereo piano piano si dissolse all’orizzonte. Venti km. forse meno forse più, ma comunque non molti, la notte sarebbe diventata presto gelida e tutto dal nulla doveva riapparire.

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    Costruiti ai tempi di Stalin con il sudore e il sangue dei tanti prigionieri, spesso innocenti, confinati in una prigione senza sbarre ma con nessuna possibilità di fuga. Era lì che mi avevano parlato della leggenda dei tanti morti e non sepolti che, di notte, si aggirano ancora alla ricerca di un po’ di pace.
    “Se li guardi… potresti impazzire”, mi avevano detto.
    “Se di notte senti dei rumori non uscire mai dalla tua tenda”.
    Erano vissuti in piccole costruzioni di legno e paglia, dai soffitti ormai franati sotto il peso della neve, con finestre forse mai chiuse, pochi legni che a stento oggi rimangono in piedi stretti dalla morsa del ghiaccio. All’ interno, erano rimaste poche brande, ciotole di metallo e, nelle fessure delle pareti, sigarette rotte.
    “Si usa così, è un gesto di devozione, un mozzicone per ammazzare il tempo”. 
    “Non andar via senza aver lasciato un po’ di pane!”